"Qualche anno fa, visitando, o meglio frugando la chiesa di Notre dame (….), trovai in un ripostiglio oscuro di una delle torri, questa parola incisa sul muro: ANATKH (…) L’uomo che scrisse quella parola su quel muro è stato cancellato, già da molti secoli, dalle generazioni degli uomini, la parola, a sua volta, è stata cancellata dal muro della chiesa, e anche la chiesa, forse, sarà presto cancellata dalla faccia della terra."
Il trascorrere del tempo e la ricerca di fissare la propria identità attraverso un segno, una traccia sono gli oggetti di questa riflessione di Victor Hugo: ogni frammento diventa racconto perché narrare storie è sempre delimitare il mondo, fissare il movimento spontaneo delle cose, ossia architettura:
Ciò di cui gode - la gente,- credo, in una storia, è di essere rassicurata, col rispecchiarsi in essa, sul fatto che quanto sta vivendo è una vita, che questo pulviscolo di indefiniti trasalimenti, di inafferrabili tropismi, tutti questi sguardi incompiuti, questi movimenti non conclusi, queste parole effimere che non le appartengono e che si sono affollate sulle sue labbra, tutta questa anonima molteplicità entro cui si dissolve la durata di una giornata che è trascorsa, simile a tutte le altre con le quali si fonde, prima di aprire il libro che ci si è proposti di leggere la sera; che tutto ciò, come nel libro, in un qualche giorno, troverà la sua unità e costituirà, anche se non ha senso, tuttavia una vita: una vita che si racconta, un destino.
È la malattia del vivere che riporta l’uomo a considerare il corpo e quanto lo circonda come parte di un disegno che si dipana a partire dal compimento della storia, della sua storia: disegno che supera i ristretti ambiti della percezione per diventare Altro, l’incognito. L’esistere si perde così nel rammemorare, per ritornarne vivificato.
Il trascorrere del tempo e la ricerca di fissare la propria identità attraverso un segno, una traccia sono gli oggetti di questa riflessione di Victor Hugo: ogni frammento diventa racconto perché narrare storie è sempre delimitare il mondo, fissare il movimento spontaneo delle cose, ossia architettura:
Ciò di cui gode - la gente,- credo, in una storia, è di essere rassicurata, col rispecchiarsi in essa, sul fatto che quanto sta vivendo è una vita, che questo pulviscolo di indefiniti trasalimenti, di inafferrabili tropismi, tutti questi sguardi incompiuti, questi movimenti non conclusi, queste parole effimere che non le appartengono e che si sono affollate sulle sue labbra, tutta questa anonima molteplicità entro cui si dissolve la durata di una giornata che è trascorsa, simile a tutte le altre con le quali si fonde, prima di aprire il libro che ci si è proposti di leggere la sera; che tutto ciò, come nel libro, in un qualche giorno, troverà la sua unità e costituirà, anche se non ha senso, tuttavia una vita: una vita che si racconta, un destino.
È la malattia del vivere che riporta l’uomo a considerare il corpo e quanto lo circonda come parte di un disegno che si dipana a partire dal compimento della storia, della sua storia: disegno che supera i ristretti ambiti della percezione per diventare Altro, l’incognito. L’esistere si perde così nel rammemorare, per ritornarne vivificato.
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