Cos’è rimasto della politica?
Cos’è che ci tiene insieme?
Un residuo fantasmatico e virtuale, completamente privo di senso e che rende ridicole le rispettive posture e inconsistenti i brandelli di relazione pubblica.
La crisi è profonda perché purtroppo la corruzione non è quella che ingrassa i patrimoni di pochi o di molti: come una vera ruggine l’agente corrosivo ha intaccato indifferenziatamente la consistenza strutturale della politica, la sua tenuta formale. Non sono i partiti a essere in crisi, ma la politica stessa, perché non ha più parole adeguate per esprimere le sue ragioni. Le parole della politica sono corrose, sono diventate desuete e anche chi dovrebbe difenderle accetta il registro minimalista della querimonia qualunquistica.
Occorre avere il coraggio di rilanciare, contro ogni buon senso comune, la dignità della politica, la bellezza agonistica dei suoi scenari, la sfida della dialettica come meccanismo di decantazione e di trasmutazione delle passioni in atti efficaci.
La politica come atto artistico collettivo, come esperimento creativo del logos che si contrappone efficacemente allo stato di natura: che non rincorre la dimensione primitivistica e le sue disarticolate espressioni, ma ragiona per raffinare gli istinti primari, per contenere le passioni e dare loro visibilità, espressione, forma.
Il ripristino del carattere nobile della tèchne politikè, che è soprattutto una disciplina di articolazione verbale e logica del pensiero: una tecnica che ha alcuni requisiti essenziali, tra cui sta, non secondariamente, la capacità di parlare appropriatamente e, cioè di avere a disposizione un repertorio abbondante di sintagmi, un’ampia ricchezza di lessico, una modulazione variegata di rigorosi registri retorici, perché su questo e non su altro si misura la bontà delle ragioni delle parti che vengono a contesa.
Occorre trovare il coraggio di rilanciare la dimensione lucente del conflitto in cui la ragione mette alla prova le sua virtù e la passione misura la propria potenza. Politica che è artificio, che è eccedenza, che è sfida scandalosa, che è agone e ritmo e misura.
Lo spazio politico è uno spazio polarizzato in cui si giostra armati delle propri virtù: individuali, comunitarie e collettive.
E’ un serissimo gioco che simula la guerra, traducendola sul piano estetico in opera d’arte, sul piano storico in atti efficaci. E questo il teatro della virtù politica: teatro di gesti e di parole giuste ed appropriate.
D’altronde, già dalle parole tragiche eschilee, dovere del politico è ta kairia legein, “ dire le parole opportune al momento opportuno”.
Fare politica è anche in Greco figura di Atena, la dea che sta sulle mura, in armi a custodire la città; che sta dentro il tempio, a proteggerne simbolicamente la forma.
Ma Atena, prima di tutto, è la dea che conosce e governa l’arte del telaio, dell’attenzione concentrata punto per punto, sul punto che chiude il nesso fra trama ed ordito; ma che nel contempo sa tenere l’occhio aperto – il suo occhio chiaro e lucente – sullo schema finale, sul disegno complessivo.
Rigore puntuale e progettualità, calcolo e sguardo lungimirante verso la costruzione complessa dell’ordito: “tessere” la relazione politica è una metafora della difficilissima arte della tessitura, non viceversa.
Atena, la dea senza madre, la dea della polis, è figura che presiede alla concreta costruzione di una trama, da un insieme scomposto di fili.
Che con pazienza e misura, intreccia e complica il filo lineare e gli da spessore, e ne fa tessuto.
Come il filo che si fa tessuto, per sorprendente, abilissimo artificio l’unidimensionalità della linea si trasforma in un corpo consistente, così l’intervento strutturante ed efficace del fare politico è una irruzione sulla linearità dell’esistente, che destruttura il già dato, che prevede una strada prima invisibile; che è capace di alterare rapporti, di trasformare se stessi e gli altri, di inquadrare diverse prospettive del mondo.
Cos’è che ci tiene insieme?
Un residuo fantasmatico e virtuale, completamente privo di senso e che rende ridicole le rispettive posture e inconsistenti i brandelli di relazione pubblica.
La crisi è profonda perché purtroppo la corruzione non è quella che ingrassa i patrimoni di pochi o di molti: come una vera ruggine l’agente corrosivo ha intaccato indifferenziatamente la consistenza strutturale della politica, la sua tenuta formale. Non sono i partiti a essere in crisi, ma la politica stessa, perché non ha più parole adeguate per esprimere le sue ragioni. Le parole della politica sono corrose, sono diventate desuete e anche chi dovrebbe difenderle accetta il registro minimalista della querimonia qualunquistica.
Occorre avere il coraggio di rilanciare, contro ogni buon senso comune, la dignità della politica, la bellezza agonistica dei suoi scenari, la sfida della dialettica come meccanismo di decantazione e di trasmutazione delle passioni in atti efficaci.
La politica come atto artistico collettivo, come esperimento creativo del logos che si contrappone efficacemente allo stato di natura: che non rincorre la dimensione primitivistica e le sue disarticolate espressioni, ma ragiona per raffinare gli istinti primari, per contenere le passioni e dare loro visibilità, espressione, forma.
Il ripristino del carattere nobile della tèchne politikè, che è soprattutto una disciplina di articolazione verbale e logica del pensiero: una tecnica che ha alcuni requisiti essenziali, tra cui sta, non secondariamente, la capacità di parlare appropriatamente e, cioè di avere a disposizione un repertorio abbondante di sintagmi, un’ampia ricchezza di lessico, una modulazione variegata di rigorosi registri retorici, perché su questo e non su altro si misura la bontà delle ragioni delle parti che vengono a contesa.
Occorre trovare il coraggio di rilanciare la dimensione lucente del conflitto in cui la ragione mette alla prova le sua virtù e la passione misura la propria potenza. Politica che è artificio, che è eccedenza, che è sfida scandalosa, che è agone e ritmo e misura.
Lo spazio politico è uno spazio polarizzato in cui si giostra armati delle propri virtù: individuali, comunitarie e collettive.
E’ un serissimo gioco che simula la guerra, traducendola sul piano estetico in opera d’arte, sul piano storico in atti efficaci. E questo il teatro della virtù politica: teatro di gesti e di parole giuste ed appropriate.
D’altronde, già dalle parole tragiche eschilee, dovere del politico è ta kairia legein, “ dire le parole opportune al momento opportuno”.
Fare politica è anche in Greco figura di Atena, la dea che sta sulle mura, in armi a custodire la città; che sta dentro il tempio, a proteggerne simbolicamente la forma.
Ma Atena, prima di tutto, è la dea che conosce e governa l’arte del telaio, dell’attenzione concentrata punto per punto, sul punto che chiude il nesso fra trama ed ordito; ma che nel contempo sa tenere l’occhio aperto – il suo occhio chiaro e lucente – sullo schema finale, sul disegno complessivo.
Rigore puntuale e progettualità, calcolo e sguardo lungimirante verso la costruzione complessa dell’ordito: “tessere” la relazione politica è una metafora della difficilissima arte della tessitura, non viceversa.
Atena, la dea senza madre, la dea della polis, è figura che presiede alla concreta costruzione di una trama, da un insieme scomposto di fili.
Che con pazienza e misura, intreccia e complica il filo lineare e gli da spessore, e ne fa tessuto.
Come il filo che si fa tessuto, per sorprendente, abilissimo artificio l’unidimensionalità della linea si trasforma in un corpo consistente, così l’intervento strutturante ed efficace del fare politico è una irruzione sulla linearità dell’esistente, che destruttura il già dato, che prevede una strada prima invisibile; che è capace di alterare rapporti, di trasformare se stessi e gli altri, di inquadrare diverse prospettive del mondo.
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