16 ottobre 2008

LA CURA

“Un piccolo paese è un paese
che è stato grande
e se ne ricorda”
(georges simenon)

Monforte.
Per me rappresenta la necessità di affermare una modalità di pensiero che si situa, in controtendenza rispetto ad un pensiero unico, indisponibile a scendere a patti con i luoghi, un pensiero che si sovrappone e azzera ogni parvenza di continuità nella storia.
Cosa vuol dire, oggi, vivere entro le spesse mura della vita che scorre ancora lenta;
E‘ rubare attimi al tempo tiranno della contemporaneità, attimi di fioritura, di una densità esistenziale ineguagliabile.
E’ trovare nei luoghi, nella roccia dell’Immacolata ad esempio, il punto di giunzione tra reale e immaginario, e per ciò stesso, una vedetta protesa sulle distese infinite, tra cielo, terra e mare.
“ sentinella, oh là, che vedi …”
nascondere attimi all’oblio, alla dimenticanza della continuità tra passato e futuro, nel presente.
È essere simbiotici al luogo-volto che rimanda ad una fisiognomica del paesaggio, fatta di contorni definiti, di passaggi temporali, di interstizi liminali , carichi di vissuto, nella manifesta possibilità di rigenerare le cose, poeticamente.
È cancellare le forme del soggettivismo tecno-estetico, calato dall’alto a stuprare la materia urbica, tentando di ricostruire il con-senso, a partire dal riconoscimento del potere trasformante di chi abita i luoghi.
È leggere le cose come manifestazioni dei luoghi, che dai luoghi traggono la loro energia, ricomponendoli, senza farne astrazione ma mantenendoli vivi, attraverso un pensiero inclusivo, capace di ritornare ad un tempo dell’uomo, un tempo biologico, scandito dal battito del cuore.
Un tempo vivo, non condizionato dai paradigmi dello sviluppo tout court, corale, volto ad inaugurare un processo di ricoscientizzazione ecologica, una rinnovata attenzione all’oikos, al fare anima.
Monforte, come frazione-mondo, rappresenta l’urgenza di ritornare alla cura dei luoghi, reimparando un gusto dell’operare nel nascondimento, in compagnia
“di un pensiero involontario e non progettante, non il risultato frutto dello scopo e della volontà, ma di un pensiero necessario, unico, che viene su da solo, “
non chiamato, risposta ad una consonanza dei sensi, aperti allo stupore.
Il dono.
E’ un vezzo dello scrivente, non rimanere ancorato entro i ristretti ambiti di pertinenza disciplinare dell’amata architettura, che gli si confanno, ma cabotare su plaghe letterarie straniere, a voler nominare i luoghi, novello geografo, per definirli.
Nello scrigno di pietre e vita chiamato Monforte, l’opera dello sguardo è ancora viva, facciamo che non si perda, perché essa è leggera, è fatta di aurea materia, di sguardi che si incrociano e comunicano, dentro vie strette ed anguste.
Il significato del racconto è riposto nella necessità di ristabilire un nesso esistenziale tra le cose.
Il luogo.
Porta Terra, nei pressi della porta urbica, il campanile di S. Agata mima una sentinella che attende il vociare dei bambini, sempre più pochi, a rompere il silenzio.
Quella mattina, era tutto un aprirsi d’usci di case che ritmavano il nostro inerpicarci lungo le vie, sentivo me stesso, Caterina, le sue allieve e le case vicine, uniti, nell’integralità di una comunione spirituale; in certe occasioni preda d’una particolare disposizione d’animo, non si è astrattamente pieni delle proprie soggettive facoltà raziocinanti, ma si partecipa empateticamente ad un evento, con tutti i sensi in ascolto che vibrano, totalmente ricettivi, in un moto di accellerazione emotiva che si nutre dell’intorno e ne è nutrito.
Eravamo assorbiti dal luogo, il nostro argomentare fluiva libero entro gli ambiti gerarchizzati del borgo, fermandosi, per non transvolare sul limitare della linea di demarcazione dei tetti, la mitica linea di seconda natura, il luogo caro agli dei pagani, le nostre frasi compendiavano le immagini, i suoni, gli odori, che ci arrivavano dall’alto, dal basso, da ogni dove, in un crescendo percettivo, preludio di sorprese future.
Dai balconi, si squadernava, un tempo, il paese delle coperte, delle lenzuola dei letti disfatti da riassettare, a celebrare il nuovo giorno mischiando la freschezza del mattino alla pesante aria notturna, l’afrore dei corpi stagnante, all’interno delle stanze della vita, che si bagna di nuova linfa.
Questo passato, dal respiro profondo delle pietre, ci ammaliava.
Il corpo nel corpo.d’un tratto dal corpo maturo d’una donna nell’aria si spanse, la grazia.
C’è un disegno sotteso del mondo che si esplica nell’intreccio e si concretizza nella matrice decorativa delle cose, nell’organico dipanarsi dei racconti di pietra, nella piena e vitalistica coscienza del proprio essere terra e soffio, o soffio di terra.
Come definire altrimenti, quel meccanismo virtuoso, legato all’imponderabilità dell’accadere che prepara e origina gli eventi nel tempo, l'agire sposò la sua propria forma e una donna, questa donna, si diede a noi come manifestazione di un umanità possibile, come sapienza profondamente legata ai cicli naturali dell’esistenza; essa e solo essa, in un anfratto di spazio tempo, riscattava con un gesto di libera espressione dello spirito il suo mondo, e, lo faceva, semplicemente, volgendo gli occhi verso noi, ricolma del pudore – candore pieno di poesia della mano piena della poesia dei fiori di campo appena raccolti, freschi di terra, come a dire, con una naturalezza disarmante, eccoli qui, dall’eternità, vi attendevano, erano pronti ad essere donati.
Penso a come quest’impercettibile sequenza nel titanismo delle imprese della contemporaneità sembri piccola cosa, ma rivestiamola del retroterra culturale da cui proviene e ci accorgeremo di quanto eravamo migliori, come uomini, più brutti, più sporchi, ma sani, ricchi dentro, nella sua trasparente semplicità quel fiore è dunque un ponte, una colleganza , un tentativo di recuperare le distanze di avvicinare due rive, sempre più lontane..Attraverso l’integrale rappresentazione dello spirito oblativo della donna viene esaltato, un amorevole gesto di accoglienza, in tal senso, è Monforte che trascendendo la sua finitezza, si sostanzia nel seno di questa madre prodiga, e nel monte dell’Immacolata metafora della grande madre, Monforte si riscatta dall’oblio, dalla dimenticanza che il tempo presente le riserva.
Le nostre radici ci chiamano, al lavoro del campo, ognuno nel suo, lungi dall’idealizzarlo, esso va ricoltivato, bisogna andare a scoprire la nobile arte di Columella, perché in essa è riposto il senso d’uno splendore antico, quel corale mutuarsi delle stagioni della vita in un divenire regolato dalla conoscenza, costituente la comune identità in cui ci si riconosce e si è riconosciuti.
Questi fiori, propongo di ripiantarli in seno alla terra demarcata, varcata che si sia porta terra, a rinnovare il rito fecondante, contrastando l’arretramento dell’uomo verso il nulla della propria solitudine orgogliosa, nell’ incapacità di donare e di donarsi.
Questi fiori saranno preghiera rivolta al cielo, carezzevole cielo che li ha visti nascere e donare a riempire il vuoto delle nostre distanze, infinite, radicali.

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